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Un uomo finito non solo è tra le opere capitali di Papini, ma una delle più significative ed essenziali della letteratura europea del sec. XX. È stato scritto che in questa autobiografia intellettuale potrebbe rispecchiarsi un'intera generazione di giovani Amleti. «È vero — scrive Ridolfi nella Vita di G.P. —, e forse non soltanto quella generazione; ma fra tanti non se n'era trovato uno che fosse anche un don Chisciotte così commovente; nessuno che sapesse, oltreché vivere, scrivere una così fatta avventura in un libro così esaltato e cosa esaltante, come sa chi fu giovane allora: oggi è soprattutto poetico e patetico».
Del libro riportiamo tre capitoli fondamentali. Nel primo dal titolo Un mezzo ritratto vediamo Papini fanciullo e soprattutto la sua grande amarezza di «non esser mai stato bambino» e di non «aver avuto fanciullezza», nel secondo La conquista
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della divinità l'autore descrive il tentativo di conquistare la divinità, sull'esempio dei letterati e filosofi prometeici del secolo scorso; nel terzo La discesa, narra la sua sconfitta e il suo ritorno a casa, dopo l'impresa folle, come «un mostro infelice e rigido».
Io non sono mai stato bambino. Non ho avuto fanciullezza.
Calde e bionde giornate di ebbrezza puerile; lunghe serenità dell'innocenza; sorprese della scoperta quotidiana dell'universo: che son mai? Non le conosco o non le rammento. L'ho sapute da libri, dopo; le indovino, ora, nei ragazzi che vedo: l'ho sentite e provate per la prima volta in me, passati i vent'anni, in qualche attimo felice di armistizio o di abbandono. Fanciullezza è amore, letizia, spensieratezza ed io mi vedo nel passato, sempre, separato, meditante.
Fin da ragazzo mi son sentito tremendamente solo e diverso — né so il perché. Forse perché i miei eran poveri o perché non ero nato come gli altri? Non so: ricordo soltanto che una zia giovane mi dette il soprannome di vecchio a sei o sett'anni e che tutti i parenti l'accettarono. E difatti me ne stavo il più del tempo serio e accigliato: discorrevo pochissimo, anche con gli altri ragazzi; i complimenti mi davan noia; i gestri mi facevan dispetto; e al chiasso sfrenato dei compagni dell'età più bella preferivo la solitudine dei cantucci più riparati della nostra casa piccina, povera e buia. Ero, insomma, quel che le signore col cappello chiamano un bambino scontroso e le donne in capelli un rospo.
Avevan ragione: dovevo essere, ed ero, tremendamente antipatico a tutti. E mi ricordo che sentivo benissimo intorno a me questa antipatia la quale mi faceva più timido, più malinconico, più imbronciato che mai.
Quando mi ritrovavo per caso con altri ragazzi non entravo quasi mai nei loro giochi. Mi piaceva star da parte a guardarli coi miei occhi verdi e seri di giudice e di nemico. Non per
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invidia: era piuttosto disprezzo quel che sentivo dentro in quei momenti. Fin da quel tempo incominciò la guerra fra me e gli uomini. Io li sfuggivo e loro mi trascuravano; non li amavo e mi odiavano. Fuori, nei giardini, chi mi scacciava e chi mi rideva dietro; a scuola mi tiravano i riccioli o mi accusavano ai maestri; in campagna, anche in villa dal nonno, i ragazzi dei contadini mi tiravan le sassate, senza che avessi fatto nulla a nessuno, quasi sentissero ch'ero d'un'altra razza. I parenti m'invitavano o mi carezzavano quando proprio non potevan farne a meno, per non mostrare dinanzi agli altri una parzialità troppo indecente, ma io m'accorgevo benissimo della finzione e mi nascondevo e ad ogni loro parola rispondevo sgarbato ed acerbo.
Un ricordo più di tutti gli altri s'è inciso nel mio cuore; umide serate domenicali di novembre o dicembre, in casa del nonno, col vino caldo in mezzo alla tavola, dentro una zuppiera, sotto il gran lume a petrolio bronzato; col vassoio delle bruciate accosto e tutta la famiglia — zii e zie, cugini e cugine, in quantità — coi visi rossi attorno.
Il patriarca, accanto al fuoco, bianco ed arguto, rideva e beveva. Scoppiettavano i ciocchi già mezzi coperti di cenere delicata; sbattevano i bicchieri sui piatti, squittivano le zie bigotte e sapute sui casi e gli scandali della settimana e i ragazzi ridevano e strillavano in mezzo al fumo turchino dei sigari paterni. A me tutto quel brusìo di festa economica e idiota faceva male all'anima e al capo. Mi sentivo straniero lì dentro, lontanissimo da tutti. E appena mi riusciva passavo di nascosto la porta e a passi prudenti, rasente al muro umidiccio, m'inoltravo nell'andito lungo e tenebroso che portava fin all'uscio di casa. E lì sentivo il mio piccolo cuore di solitario che batteva con veemenza, come se stessi per far un non so che di male, per commettere un tradimento. In quell'andito v'era una porta vetrata che dava sopra una corticina scoperta: la schiudevo appena e mi mettevo ad ascoltar l'acqua che veniva giù stanca e a malincuore, rimbalzando sui mattoni e sulle pozze; che veniva giù senz'entusiasmo, senza furia, ma con l'ostinatezza lenta e odiosa di qualcosa che non finirà mai.
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Ed io l'ascoltavo nel buio, col freddo nel viso e negli occhi bagnati e se dallo spiraglio qualche goccia mi schizzava d'un tratto sulla carne mi sentivo felice, come se quella stilla venisse a purificarmi, a invitarmi altrove, fuori delle case e delle domeniche. Ma una voce mi richiamava alla luce, al supplizio, ai commenti. «Che ragazzo maleducato!».
Sì, è vero: io non sono stato bambino. Sono stato un vecchio e un rospo pensoso e scontroso. Fin da allora il meglio della mia vita era dentro di me. Fin da quel tempo, tagliato fuori dall'affetto e dalla gioia, mi rintanavo, mi distendevo in me stesso, nella fantasticheria bramosa, nella solitaria ruminazione del mondo rifatto attraverso l'io. Non piacevo agli altri e l'odio mi rinchiuse nella solitudine. La solitudine mi fece più triste e spiacente; la tristezza serrò il cuore ed aizzò il cervello. La diversità mi staccò anche dai prossimi e la separazione mi fece sempre più diverso. E fin da quel principio di vita cominciai a gustare la virile dolcezza di quell'infinita e indefinita malinconia che non vuole sfoghi e consolazioni, ma si consuma in se stessa, senza scopo, creando a poco a poco quell'abitudine della vita interna e solitaria, che ci allontana per sempre dagli uomini.
No: io non ho mai conosciuto la fanciullezza. Non ricordo affatto d'essere stato bambino. Mi rivedo, sempre, selvatico e soprappensiero, appartato e silenzioso, senza uno scoppio di franco piacere. Mi rivedo pallido e attonito come nel primo ritratto.
La fotografia è strappata a metà, sotto il cuore. È piccina, sudicia e stinta: i bordi del cartoncino son neri, come le cornici dei morti. Un viso sbiancato di bambino astratto guarda verso sinistra e si sente che lì a sinistra, di faccia a lui, nessuno lo guarda. Gli occhi son tristi, un po' affossati — non son venuti bene? —, la bocca è chiusa a forza coi labbri un po' soprammessi, per non far vedere i denti. Unica bellezza: i riccioli morbidi, lunghi, inanellati che cascan giù sul bavero della marinara.
La mamma dice che son io a sett'anni. Può essere. Questo ritratto è l'unica prova che resti della mia fanciullezza. Ma vi
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par forse questo un ritratto di bambino? Questo piccolo spettro slavato, che non mi guarda, che non vuol guardare nessuno?
Si vede subito che quegli occhi non son fatti per tingersi del celeste del cielo: son bigi, son nuvolosi di suo. Quelle gote s'indovina che son bianche, che son pallide e che saranno sempre bianche e sempre pallide; diventeranno rosse soltanto per fatica o vergogna. E quelle labbra così chiuse, volontariamente chiuse, non son fatte per aprirsi al riso, alla parola, alla preghiera, al grido. Son le labbra serrate di chi patirà senza la seccante debolezza dei lamenti. Son labbra che verranno baciate troppo tardi.
In questa mezza fotografia sbiadita ritrovo l'anima morta di quei giorni; il viso delicato del rospo; il cipiglio dello scontroso; l'accoramento calmo del vecchio. E mi si stringe il cuore ripensando a tutti quei giorni smorti, a quegli anni infiniti; a quella vita rinchiusa, a quella mestizia senza motivi; a quella nostalgia incancellabile di altri cieli e d'altri camerati.
No, no: quello non è il ritratto di un bambino. Io vi ripeto che non ho avuto fanciullezza.
Ora sì che l'ingegno e la bontà — né la poesia né i sistemi — non bastavano.
Prima di attraversare l'Atlantico come profeta del nuovo regno io dovevo essere — realmente, effettivamente essere — quel che nella lunga vigilia avevo sognato per me, avevo proposto agli altri: un santo, una guida, un semidio.
Non era più il momento (già troppo lento!) dei proponimenti, vagheggiamenti, promesse, speranze, programmi.
Come si poteva concepire un santo senza miracoli, un fondatore di fede senza prestigio, un Dio senza poteri? Se l'unica ragione della vita era, per me, quella e soltanto quella, non potevo ritardare l'adempimento e la conclusione. La farfalla angelica doveva rompere il bigio bozzolo, il frutto doveva
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maturarsi dopo la leggera prodigalità di fiori. Romper gli indugi; tagliare i ponti; mutar vita, carattere, anima; mettere il suggello del fatto alla preghiera prolissa delle intenzioni.
Non potevo illudermi di far tutto da me, dal nulla. Dovevo rientrare anch'io, con il mio altezzoso spregio per il passato, in una qualche tradizione; affidarmi agli altrui insegnamenti, approfittare delle vecchie esperienze. Ma da quale parte voltarsi con maggiore speranza di soccorso?
Il mio scopo immediato era uno solo: accrescere all'infinito il potere della mia volontà: far sì che il mio spirito potesse comandare a uomini e cose senza bisogno di atti esterni. Cioè: far miracoli. Null'altro.
I santi e i maghi (o quelli ch'erano un po' l'uno e un po' l'altro: i profeti ebrei, i fachiri indiani) pretendevano d'aver fatto miracoli. I primi senza cercare, quasi senza volere; gli altri sottoponendosi a una rigorosa disciplina e sorretti da segrete dottrine e da forze estranee. Ma i miracoli, insomma, erano possibili — e v'era già il principio d'un'arte del miracolo. Un principio, un accenno, un rudimento; era necessario costituirla, quest'arte, ritrovarne le regole sicure e applicarla. Anche se quelli che gli storici dei beati e i teorici della magia chiaman miracoli non son veri e propri miracoli nel senso rigoroso e filosofico della parola a me non importava. Erano fatti straordinari; esempi di poteri non comuni; manifestazioni di volontà insolite, di uomini dotati di qualità divine: mi bastava.
Studiando questi uomini, penetrando nella loro vita, osservando per quali vie eran giunti a fare quel che avevan fatto si doveva sorprendere finalmente il loro segreto — la molla prima e comune dei prodigi. Dopo era soltanto questione di volontà e di pertinacia. Riconosciuta la strada il passo non doveva esser difficile: dove gli altri son passati passerò anch'io!
I santi mi portavano verso le religioni; i maghi verso le scienze occulte. Cammini solo in apparenza divergenti: religione e magia eran nate insieme, ne' tempi prima. I santi erano stati taumaturghi (e Cristo stesso?) e i maghi (i veri) erano stati, avevan dovuto essere, puri ed asceti. Conoscevo di
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già tutt'e due i cammini: quello celeste, verso i paradisi consacrati; e quello sotterraneo, verso gli inferni maledetti.
Dopo il fallimento scettico della mia aufklärung ero tornato con una certa simpatia verso le fedi — anzi verso il cristianesimo, verso il cattolicesimo. Avevo riletto i vangeli senza la petulante animosità volteriana dei primi anni; ero rientrato nelle chiese e non soltanto per ammirare l'architettura e per contemplare i quadri degli altari e gli affreschi delle cappelle. Avevo riletto i vangeli per cercarvi Cristo; ero rientrato nelle chiese per trovarci Iddio.
Il culto mi attirava — e non soltanto per la bellezza delle cerimonie e per la musica delle messe cantate. Qualcosa di ambiguo — il bisogno di credere, di tornar fanciullo, di sentirmi in comunione colla cristianità dalla quale ero uscito — si agitava sommessamente in me, senza volersi decidere chiaramente. Leggevo Sant'Agostino; meditavo Pascal; assaporavo i Fioretti. Giunsi fino all'Introduction à la Vie Devote e agli Esercizi spirituali. Curiosità psicologica? desiderio d'informazione?
In gran parte sì. Ma c'era anche un lievito di volontà di credere, un desiderio sommesso di prender parte a quel magnifico esperimento religioso che da Gesù in qua aveva dato al mondo tanti capolavori d'anime e d'opere. L'apologetica m'interessava; e il misticismo, anche per l'esempio di amici, m'attirava. Cominciai a praticare i mistici antichi e i moderni: da Plotino a Novalis. I tedeschi soprattutto (Meister Eckehart, Suso, Böhme) e gli spagnuoli (Lullo, Santa Teresa, San Giovanni della Croce). Gli speculativi e i sensuali — e non scordavo i solitari, gli anacoreti, i disperati amanti d'Iddio che avevan passato la vita in perpetua orazione, fra le pietre delle montagne. In tutti trovavo qualcosa che si confaceva al mio caso: elevazione, sperdimento nell'essere, abbandono, speranze di più alte sorti.
In alcuni mistici eterodossi — come il Novalis — ritrovavo anche le più esplicite promesse di quel che cercavo ma niente più che promesse e aspettazioni. Gli altri portavano verso le altezze rarefatte del più astratto amore ma volevano ch'io
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rinunciassi alla mia conoscenza, alla mia coscienza, alla mia persona. M'invitavano all'inabissamento, alla fusione ma non già nel mobile e commosso oceano dei particolari bensì nell'infinita indeterminazione di un Dio unico e invisibile. Vero è che alcuni di costoro, sciogliendosi in codesta indefinibile e ineffabile divinità, eran riusciti a compiere appunto quel ch'io volevo: i miracoli. Rinunziando a tutto, anche a loro stessi, alla loro individualità, avevan tutto ottenuto. Tutto sarà dato a chi tutto dà. Era uno spiraglio sul segreto del potere divino — ma stretto, ma incerto.
Avevo già riconosciuto, facendo la teoria della ricerca del diverso, che è necessario compenetrarsi col tutto perché il tutto ci obbedisca. Finché ci sentiamo separati non abbiamo il diritto di dare ordini a quel che sentiamo staccato da noi e se li diamo non riescono. Il misticismo era, di fatto, una distruzione di barriere, una negazione del distacco, uno slancio verso l'inseparabilità assoluta ed eterna. Il mistico non si sente qualcosa di separato dal mondo, dall'essere — da Dio. E allora, divenuto parte intima e integrante del mondo, ogni suo resto di volontà si riflette nell'essere: avendo abdicato alla sua volontà particolare diventa, senza pensarlo, una specie di volontà universale e le più rigide leggi dei fisici cadono dinanzi all'amoroso desiderio di un estatico.
Ma anche il potere de' santi è limitato e saltuario e v'è, nel modo di raggiungerlo, il principio stesso della sua impossibilità. La potenza perfetta si potrebbe raggiungere soltanto colla rinuncia perfetta del proprio io. Ma quando questa rinuncia fosse avvenuta ogni ricordo di pensiero, ogni traccia di volontà, ogni stimolo di desiderio sarebbe scomparso, e non potrebbe mai più risorgere. E allora non sarebbero concepibili e possibili i comandi. Chi avesse raggiunto il potere massimo non potrebbe, appunto per questo, servirsene.
Ma io non potevo, non volevo rinunziare a me stesso. Che m'importava di una piena possibilità perduta nell'incoscienza? Io volevo agire sulle cose particolari: conoscere, sapere, prevedere. Non perder me stesso, non abolire il pensiero. E allora
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mi rivolsi più arditamente dall'altra parte: verso l'occultismo.
Non era la prima volta che tentavo di penetrar nell'atrio del tempio maledetto. Fin dagli anni ultimi dell'enciclopedismo ingordo avevo picchiato anche a quella porta. Il meraviglioso mi aveva sempre adescato (o Mille e una notte, capolavoro di tutte le poesie!) e ancor non mi stomacava cercarlo nei colpi di un tavolino tondo o nelle parole sconnesse di un medio non scozzonato a dovere. Per la volgare strada maestra delle sedute spiritiche (salotti ridicoli; vecchie isteriche abbrunate; lampade rosse; incontri di gambe e di piedi; risate trattenute; silenzio penoso in attesa dei colpi fatali!) avevo fatto qualche conoscenza fra le spie dell'al di là. Alcuni — i più rinfanciulliti — non cercavano che la certezza d'una continuazione qualunque dopo l'ultimo respiro. Altri, più idealisti, aspiravano a una rigenerazione morale del mondo di qua attraverso la conoscenza delle leggi del mondo di là. Altri, infine, più eroici o più cerretani, facevan capire che tutti i piccoli prodigi fisici del medianismo e le sbrodature e compilazioni abracadabranti della teosofia non eran nulla: il principio, tutt'al più. Accennavano a dottrine superiori, a tradizioni segrete, a maestri invisibili o lontani, a esoterismi di primo ordine serbati a chi può sormontare le mille terribili prove — e promettevano vagamente la potenza, quella stessa potenza ch'io cercavo in ogni parte. Con alcuni di loro parlai a lungo; lessi le fonti torbide della loro sapienza raccogliticcia; frequentai alcune riunioni di odor diabolico; m'iniziai, alla lontana, alla teosofia; provai l'esperienze respiratorie delle varie Yeghe indoyankee; chiesi insistentemente i segreti; mi offrii come discepolo. Non già ch'io avessi piena fede in quel guazzabuglio teologico e simbolico dal quale, secondo loro, doveva sprizzar la luce (la luce che doveva portare in noi la nuova vita, una vita ricca di poteri) ma credevo che qualcosa di vero ci fosse nelle istruzioni ai discepoli, per un regime mentale (e fisico) diverso dal solito. Dei sistemi arruffati; delle cerimonie scimmiottate e delle formule meccanicamente ripetute sorridevo, ma in tutta quella massa d'insegnamenti o
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d'esperimenti che per diecine di secoli, tra l'oriente e l'occidente, s'eran comunicati e tentati, qualcosa di solido doveva pur esserci. Il nucleo, il seme, il primo frammento di un'arte del miracolo. E colla mia foga antica mi tuffai nelle ricerche, nelle letture e nelle meditazioni. Effetti fisici di cause spirituali se ne vedevano; se almeno non mentivano tutti i medi e i medianisti. La telepatia era già un adombramento dei futuri rapporti fra gli uomini, soppressi gli intermediari lenti e pesanti — i movimenti degli oggetti a distanza, le così dette materializzazioni (non da tutti negate) i primi esempi di possibilità trascendenti, di padronanza diretta, mentale, sul mondo dell'inerte. Questi miracoli eran compiuti soltanto da uomini anormali in stati straordinari: bisognava renderli possibili per tutti, anche negli stati più ordinari. Eran spesso involontari: dovevano mutarsi in volontari. Eran pochi: dovevan diventare comuni.
Per ottener queste vittorie e rassodarle occorreva proceder con metodo. Chi erano gli attori, gli agenti di questi spunti miracolosi? I santi, i maghi, i medi: nomi diversi di quegli uomini soprapotenti che avevano compiuto, con diverse fedi, prodigi somigliantissimi. Il segreto non era dunque nelle dottrine. Il santo impregnato di teologia cattolica; il mago tutto invaso di teologia cabalistica, alessandrina, paracelsica; il medio imbevuto di teologia spiritualista uso Allan Kardec facevano, o speravano o promettevan di fare, le stesse cose. La vera causa risiedeva dunque nell'essere medesimo di questi uomini privilegiati che soltanto per caso o spinti da una qualunque frenesia teorica manifestavano saltuariamente la loro potenza. Il punto era lì: studiare profondamente, minutamente, intimamente la loro vita, il loro sistema di vita, la loro costituzione, le loro tendenze e anomalie. Costruire la fisiologia e la psicologia dell'uomo potente. Fatto questo lavoro sarebbe stato facile ricavarne una specie di metodica per la sublimazione della volontà e sarebbe stato possibile educare e addestrare artificialmente gli uomini per concedere sistematicamente a ognuno la sua parte di divinità. Ero fedele alla mia idea: pensare allo strumento e non alla teoria; trasformare lo strumento
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invece di cambiare soltanto parole, terminologie. Fissato così, esattamente, il compito e il cammino mi posi disperatamente al lavoro. Psicologie generali e particolari, normali e patologiche; leggende di santi e autobiografie di veggenti, rapporti di sedute medianiche e catechismi d'iniziati; propedeutiche magiche e storie di taumaturghi: tutto ingoiai e tracannai con la mia vecchia impaziente voracità.
Radunai innumerevoli note; seguii piste false; iniziai esperienze, credetti d'aver trovato; fallii, rinunciai, ricominciai... Il tempo incalzava, la giovinezza sfuggiva; l'impegno, il più solenne impegno di tutta la vita, era preso. Bisognava assolutamente scoprire il segreto: dovevo in tutti i modi impadronirmene — o sparire. Vivevo in ansia perpetua; sfigurito; stralunato; trasognato. Una febbre continua mi eccitava; il cervello si rifiutava a lavorar più oltre... La mia testa era tutto un dolore martellante e perpetuo; svenni più volte; perdetti spesso il senso della direzione, del significato delle cose, delle parole. Gli amici si spaventarono: li respinsi con male parole. Vidi la morte dappresso: cercai la solitudine; ognuno mi sembrava nemico. Decisi di partire, senza dir nulla ad anima viva. Lassù, fra le montagne, più vicino al cielo, lontano dal cicaleccio e dal trambusto della città, più facilmente avrei vinto il mistero. La mia debolezza cresceva e diveniva inquietante; incubi atroci mi assediarono tutte le notti: la pazzia già stava in agguato pronta a ghermirmi; tutto era scolorito attorno a me, attorno alla mia mente affannosamente brancolante — dolorosamente tesa verso l'impossibile.
Partii, solo, per l'ultimo tentativo — col mio pazzo sogno nel cuore. Sarei disceso di nuovo dalla montagna vittorioso e tremendo come un Dio — o non sarei più tornato. Ma tornai...
Tornai... Non posso pensare a quel ritorno. Non posso dire quel che fu nella mia vita. Una vampa infernale di vergogna mi brucia il viso. Un sussulto di freddo mi scuote le reni. Mi
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s'annebbian gli occhi; serro i denti; e il cuore par che voglia fermarsi ma dopo ribatte e ripalpita più forte, quasi voglia coprire il parlare interno dei rimorsi... Non fu un ritorno ma una fuga, una disfatta — una fine. Sentii che il meglio della mia vita era vissuto; che la mia parte nel mondo terminava Avrei potuto, dopo, mangiare, dormire, scrivere e magari piacere (interessare gli altri, farmi nome ecc.), ma il corso metafisico di me stesso era tagliato di netto. Non finiva un periodo, finiva una persona. Non si chiudeva un'esperienza, ma si spegneva un'anima.
Speranza, orgoglio, perfezione, divinità! O miei sogni veramente sognati, o entusiasmi veramente sentiti, o amori insaziati e impazienti come primavere che hanno già l'arsura degli agosti! Chi non ha provato nulla di simile, chi non ha aspettato lunghe notti nel buio che le porte s'aprissero e la gran luce fosse; chi non ha appressato la bocca asciutta e arida alla fonte che doveva zampillare; chi non s'è visto grande in cima alla più grande montagna, rivale di Iddio, padrone degli uomini, signore della terra, al di là e al di sopra del male e del bene, dell'utile e dell'inutile e di tutte le piccole e le grosse, le vili e le gloriose faccende degli uomini, solo con sé stesso, solo nel cielo, non potrà capire quel ch'io sento ripensando a quel ritorno.
Scendevo. Venivo dall'alto, dai monti, dalle colline. Ma non scendevo come il fiero pastore dal roveto ardente colle leggi della verità scavate nel cuore e nella pietra. Non scendevo come il buon pastore dagli olivi notturni, verso un supplizio ch'era promessa d'eternità, verso una morte ch'era principio di vita. Scendevo solo e cieco. Non scendevo: precipitavo. Neppure il sorriso d'una speranza mi illuminava il viso. Tutto era finito. Ricominciava il mediocre, il basso, il vile — e per sempre. Addio giovinezza! Addio grandezza divina! Addio vera vita!
Ero andato sui monti, pensando stupidamente che salendo mille o due mila metri si fosse più vicini al cielo. Mi ero rinchiuso nella solitudine, immaginando che vi fosse altra solitudine al di fuori di quella che lo spirito forte, rattratto in sé solo, può creare nel proprio interno. E colla testa posata sull'erbe rase degli altipiani, colle braccia distese come un titano crocifisso,
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non altro vedendo che l'infinito celeste della poesia e della fede, a tu per tu coll'aperto cielo, cominciando a tremare quando le stelle cominciavano a tremare nel fosco blu del crepuscolo, avevo aspettato il momento, l'attimo, lo scatto, lo scoppio — la rivelazione acciecante: il miracolo. E alle mie invocazioni nessuno aveva risposto; nessuno era venuto incontro alla mia attesa. Le cose eran rimaste sorde alle mie chiamate: tutto aveva seguitato ad essere come prima. Gli uomini, per quanto lontani, pareva che mi deridessero. Li sentivo sghignazzare quasi soddisfatti.
— Voleva esser più di noi. Uscir dall'umanità. Aveva orrore della nostra miseria. E ora, anche lui, se vuol vivere...
(Soltanto una donna, lontana, piangeva. Ma piangeva davvero? E sincera? Forse per vanità tradita?)
Mi ammalai. Anche la poca forza che avevo mi abbandonò. Tornai alle case, alla mia casa — fra i vicini, fra i lontani. Tornai come torna fra i prigionieri colui che si credette, per un'ora, graziato. Non ero più quello di prima; non ero quello che avevo voluto essere. Ero un mostro: un mostro infelice e rigido. Pallido, fiacco, ritroso, sfuggivo tutti. Più nulla mi richiamava nel mondo dei valori comuni. Lasciai anche gli amici. Dissi che non volevo veder nessuno; che per qualche tempo volevo tornar solo, selvaggiamente solo come negli anni dell'adolescenza. Mi rinchiusi in casa. Cambiai città. Non feci più nulla: non risposi alle lettere, non replicai agli insulti, non corrisposi all'amore.
Quale mai cosa poteva prendermi e tenermi dopo quel che avevo tentato? L'arte? La gloria? Il pensiero? Non eran quelle, forse, le gioie che avevo lasciate addietro, le felicità a cui avevo rinunziato, i fini che avevo oltrepassato senza raggiungerli, perché troppo prossimi e piccoli mi sembravano?
Chi ha voluto tutto come può accontentarsi del poco? Chi ricercò il cielo come può compiacersi della terra? Chi s'inoltrò sulla via della divinità come può rassegnarsi all'umanità? Tutto è finito, tutto è chiuso, tutto è perduto. Non c'è nulla da fare. Consolarsi? Neppure. Piangere? Ma per piangere ci vuole ancora dell'energia; ci vuole un po' di speranza! Io non son
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Sono una cosa e non un uomo. Toccatemi: son freddo come una pietra, freddo come un sepolcro. Qui è sotterrato un uomo che non poté diventar Dio.
Il vagabondo di tutte le filosofie che nell'Uomo finito ha descritto il naufragio del folle sogno di «diventar Dio», nella Storia di Cristo ha cantato la gioia del pellegrino che ha incontrato, in Cristo figlio di Dio, la verità e la via per un'autentica divinizzazione. Nella desolazione dell'immediato dopoguerra, la Storia di Cristo apparve come un invito a ricostruire l'uomo sul Vangelo.
Papini ha inteso scrivere «un libro vivo, che renda più vivo Cristo, il sempre vivente, agli occhi dei vivi. Che lo faccia sentir presente, d'una eterna presenza, ai presenti. Che lo raffiguri in tutta la sua vivente e presente grandezza [...] a quelli che l'hanno vilipeso e rifiutato, a coloro che non lo amano perché non hanno mai veduto la sua vera faccia. Che manifesti quanto v'è di soprannaturale e simbolico nei suoi principi umani, nei suoi principi oscuri e popolari, e quanto di familiare umanità, di popolare semplicità traluca anche nelle sue mansioni di liberatore celestiale, di suppliziato e risuscitato divino. Che mostri, infine, in quell'epos tragico, al quale han posto mano davvero cielo e terra, quanti insegnamenti, adatti al nostro tempo, alla nostra vita, si possono estrarre dalla stessa successione di vicende che va dalla stalla di Betlemme alla nuvola di Betania» (dalla prefazione: L'autore a chi legge).
Le pagine sulla Crocifissione — cui appartiene Il buio — hanno nel libro «il vigore un po' acclamato e popolaresco di una ricchissima e antica tradizione iconografica: una lamenta
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zione, come nelle laudi delle confraternite, ma densa di umori; e una galleria di visacci, di maschere atroci; quasi che l'autore si preparasse a chiamare intorno alla Croce quel mondo più suo perché più deriso» (M. Apollonio). Papini nella Storia è un gran paesista; le scene della Passione costituiscono un affresco potente, ricco di colori, di movimento, d'espressione.
Il respiro di Gesù si faceva sempre più rantolante. Il petto si dilatava con affannoso convulso per bere un po' d'aria di più; la testa gli martellava dalle trafitte; il cuore pulsava con battiti celeri e veementi che lo squassavano come per strapparlo; la febbre sitibonda dei crocifissi gli bruciava tutta la persona quasi che il sangue fosse diventato nell'arterie fuoco corrente. Il corpo stirato in quella sconcia positura; confitto nei travi senza libertà di cambiare lato; sostenuto dalle mani che si laceravano se si abbandonava, ma, s'eran tenute su, affaticavan troppo il busto stracco e frustato: quel corpo giovane e divino, che tante volte aveva sofferto per contenere un'anima troppo grande, era ormai un rogo di dolore dove ardevano, tutti insieme, i dolori del mondo.
La crocifissione era davvero, come confessò un retore carnefice che morì assassinato prima di Cristo, il più crudele e il più tetro dei supplizi. Quello che dava i maggiori strazi e per più tempo. Se il tetano sopravveniva, un torpore pietoso affrettava la morte; ma c'eran di quelli che resistevano, soffrendo sempre più, fino al giorno dopo e oltre. La sete della febbre, la congestione del cuore, l'irrigidimento delle vene, crampi dei muscoli, le vertigini e le trafitture del capo, l'angoscia dilaniante e crescente non bastavano a vincerli. Ma i più, in capo a dodici ore, spiravano.
Il sangue delle quattro ferite di Gesù s'era aggrumato intorno alle capocchie di ferro ma ogni scossa ne faceva sgorgare altri fili che cadevan giù lenti lungo la croce e gocciavano in terra. La testa s'era piegata, per l'indolenzimento del collo,
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sopra una parte; gli occhi, gli occhi mortali dove s'era affacciato Iddio per guardare la terra, annegavano nell'invetriatura dell'agonia; e le labbra livide, screpolate dal pianto, disseccate dalla sete, contratte dal penoso fiatare, mostravan gli effetti dell'ultimo bacio, del bacio appestante di Giuda.
Così muore un Dio che ha liberato dalla febbre i febbricitanti, che ha dato l'acqua di vita agli assetati, che ha risvegliato i morti dai cataletti e dai sepolcri, che ha restituito il moto a chi era impietrato dalla paralisi, che ha cacciato i demoni dell'anime imbestiate, che ha pianto coi piangenti, che ha fatto rinascere a vita nuova i cattivi invece di punirli, che ha insegnato con parole di poesia e prove di miracoli quell'amore perfetto che i bruti farneticanti, rinvoltati nel sonno e nel sangue, non sarebbero mai stati capaci di scoprire. Ha rinchiuso le piaghe e hanno piagato il suo corpo intatto; ha perdonato ai malfattori ed è confitto, innocente, dai malfattori in mezzo a malfattori; ha infinitamente amato tutti gli uomini, anche quelli che non meritavano il suo amore, e l'odio l'ha inchiodato qui, dove l'odio è punito e punisce; è stato più giusto della giustizia e s'è consumata, a suo danno, la più dolosa ingiustizia; ha chiamato gli animali tristi alla santità ed è caduto in mano degli avvilitori e dei demoni; ha portato la vita e gli danno in cambio la morte più ignominiosa.
Tanto era necessario perché gli uomini potessero rimparare la strada del Paradiso Terrestre; rimontare dal briaco imbestiamento all'ebbrezza dei Santi; risuscitare dall'inerte imbecillità, che par vita ed è morte, alle magnificenze del Regno dei Cieli.
Che la mente s'inchini al mistero scandalizzante e indisuggellabile di questa necessità ma il cuore degli uomini non dimentichi a quale prezzo fu saldato il nostro debito immane. Per diciannove volte cent'anni gli uomini rinati in Cristo, degni di conoscer Cristo, di amare Cristo e d'essere amati da Cristo, hanno pianto, almeno una volta nella vita, al ricordo di quel giorno e di quel martirio. Ma tutte le nostre lagrime, raccolte insieme come un amaro mare, non ripagano una sola di quelle gocciole che caddero, rosse e pese, sul luogo del
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Teschio.
Un barbaro re di barbari ha detto la parola più forte che sia uscita da bocca cristiana ripensando a quel sangue. Leggevano a Clodoveo la storia della Passione e il feroce re sospirava e lagrimava, quando ad un tratto, non potendo più reggere, mettendo la mano sull'impugnatura della spada, gridò: Oh fossi stato là io, coi miei Franchi! Parola ingenua, parola di soldato e di violento, che contraddice le parole di Cristo a Pietro tra gli Ulivi, ma bella di tutta l'assurda bellezza d'un amore candido e vigoroso. Perché non basta piangere, su chi non ha dato soltanto lagrime, ma è necessario combattere. Combattere in noi tutto quel che ci divide da Cristo; combattere in mezzo a noi tutti i nemici di Cristo.
Perché se più tardi milioni hanno pianto ripensando a quel giorno, in quel venerdì, intorno alla Croce, tutti — meno le Donne — ridevano. E quelli che ridevano non son morti tutti ma hanno lasciato figlioli e nipoti e molti di questi son battezzati ma ridono anche oggi, accanto a noi, e i loro discendenti rideranno fino al Giorno che Uno solo potrà ridere. Se il pianto non può cancellare il sangue quale pena potrà espiare quel tremendo riso!
Guardateli dunque, ancora una volta, quelli che ridono alla croce dove Cristo è morso dai più divoranti dolori!
Eccoli là, aggrappolati sulle pendenze del Teschio come una banda di capri insatiriti dall'odio. Guardateli bene, guardateli in viso ad uno ad uno; li riconoscerete tutti, chè sono immortali.
Vedete come protendono i musi annusanti, i colli nodosi, i nasi gobbi e uncinati, gli occhi predaci che sbucano dai sopraccigli setolosi. Osservateli quanto son orridi in quelle pose spontanee d'implacata cainità. Contateli bene che ci son tutti, eguali a quelli che conosciamo, fratelli di quelli che incontriamo ogni giorno sulle nostre strade. Non manca nessuno.
Ci sono, in prima fila, i Bonzi dalle zeppe ventraie, dai cuori cotennosi, dalle vaste orecchie siepate di peli, dalle gran bocche labbrute che diventano, in certi momenti, crateri di bestemmie. E gomito a gomito gli Scribi protervi, cisposi e
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glandolosi, col viso d'un giallo escrementizio, rappezzatori di menzogna, eruttanti marcia e inchiostro. E gli Epuloni che sporgono innanzi l'oscena gravidanza de' loro budelli stivati, bruti che lucrano sulla fame, che ingrassano nelle carestie, che convertono in numerario la pazienza dei poveri, la bellezza delle vergini, il sudore degli schiavi. E i loschi Monetieri, esperti in traffici illeciti e in vessazioni, che vivono per carpire e arruffianare; e i legnosi Legisti, addestrati a vulnerare, contro l'innocente, la Legge. E, dietro gli altezzosi pilastri della società, il buglione degli sguatteri frodolenti, dei furfanti riffosi, dei cialtroni sboccati, dei paltonieri mugoloni, dei gaglioffi lerci: la bassa feccia allupata che mangia sotto le tavole e ringhia tra le gambe di chi non allunga un boccone o una pedata.
Son loro gli eterni nemici di Cristo; che sembrano, oggi, ilari coribanti d'un infame saturnale, e hanno vomitato sulla faccia di Cristo la saliva infetta, la bava puzzolente, il fondiglio lotoso dell'anima. Qualcuno di loro, forse, stanotte ha fornicato, e il giorno prima ha giurato il falso per estorcere il non suo; forse qualcuno ha generato un bastardo, ha pesato con stadere alterate, ha detto di no a chi piangeva.
E questa schiuma melmosa d'umanità sozza e ladra fiata dalla latrina del cuore il suo disprezzo per chi la salva, s'accanisce contro colui che perdona, avventa il suo vituperio su Cristo che spasima per lei, su Cristo che muore per lei. Mai, come in quel giorno irreparabile, si videro cosi nettamente contrapposti, nell'antitesi d'una voraginosa tragedia, il bene e il male, l'innocenza e l'infamia, la luce e la tenebra.
E parve che la natura stessa volesse nascondere l'orrore di quella vista. Il cielo, ch'era stato limpido tutta la mattina, quasi improvvisamente s'oscurò. Una caligine densa, come se venisse dalle maremme dell'inferno, s'alzò dietro le colline, e a poco a poco si spanse in tutti gli angoli dell'orizzonte. Uno stormo di nuvole nere s'accostò al sole, a quel dolce e chiaro sole d'aprile che aveva scaldate le mani degli omicidi, l'accerchiò, l'assediò, e finalmente lo ricoprì d'una fitta tenda di tenebre. «E fino all'ora nona fu buio in tutto il paese».
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La Storia di Cristo si chiude con la Preghiera a Cristo. È un'invocazione fremente e singhiozzata di chi, dopo tanto errare, ha raggiunto la meta. Ma, guardandosi attorno, vede gli uomini vagolanti nel buio, sporchi di sangue, incalzati da tante miserie. Perché la storia dev'essere questo triste rimescolio di peccati e di abiezioni? Perché ci si ostina ad allontanarci dal Vangelo? Su questi interrogativi si eleva la Preghiera: implorazione di perdono e di speranza.
Sei ancora, ogni giorno, in mezzo a noi. E sarai con noi per sempre.
Vivi tra noi, accanto a noi, sulla terra ch'è tua e nostra, su questa terra che ti accolse, fanciullo, tra i fanciulli e, giustiziabile, tra i ladri; vivi coi vivi, sulla terra dei viventi che ti piacque e che ami, vivi d'una vita non umana sulla terra degli uomini, forse invisibile anche a quelli che ti cercano, forse sotto l'aspetto d'un Povero che compra il suo pane da sé e nessuno lo guarda.
Ma ora è giunto il tempo che devi riapparire a tutti noi e dare un segno perentorio e irrecusabile a questa generazione. Tu vedi, Gesù, il nostro bisogno; tu vedi fino a che punto è grande il nostro grande bisogno; non puoi fare a meno di conoscere quanto è improrogabile la nostra necessità, come è dura e vera la nostra angustia, la nostra indigenza, la nostra disperanza; tu sai quanto abbisognamo d'una tua intervenzione, quant'è necessario un tuo ritorno.
Sia pure un breve ritorno, una venuta improvvisa, subito seguita da un'improvvisa scomparsa; una apparizione sola, un arrivare e un ripartire, una parola sola nel giungere, una parola sola nello sparire, un segno solo, un avviso unico, un balenamento nel cielo, un lume nella notte, un aprirsi del cielo, una risplendenza nella notte — un'ora sola della tua eternità, una parola sola per tutto il tuo silenzio.
Abbiamo bisogno di te, di te solo, e di nessun altro. Tu solamente, che ci ami, puoi sentire, per noi tutti che soffriamo, la pietà che ciascuno di noi sente per sé stesso. Tu
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solo puoi sentire quanto è grande, immisurabilmente grande, il bisogno che c'è di te, in questo mondo, in questa ora del mondo. Nessun altro, nessuno dei tanti che vivono, nessuno di quelli che dormono nella mota della gloria, può dare, a noi bisognosi, riversi nell'atroce penuria, nella miseria più tremenda di tutte, quella dell'anima, il bene che salva. Tutti hanno bisogno di te, anche quelli che non lo sanno, e quelli che non lo sanno assai più di quelli che sanno. L'affamato si immagina di cercare il pane e ha fame di te; l'assetato crede di voler l'acqua e ha sete di te; il malato s'illude di agognare la salute e il suo male è l'assenza di te. Chi ricerca la bellezza nel mondo cerca, senza accorgersene, te che sei la bellezza intera e perfetta; chi persegue nei pensieri la verità, desidera, senza volere, te che sei l'unica verità degna d'esser saputa; e chi s'affanna dietro la pace cerca te, sola pace dove possono riposare i cuori più inquieti. Essi ti chiamano senza sapere che ti chiamano e il loro grido è inesprimibilmente più doloroso del nostro.
Noi non gridiamo verso di te per la vanità di poterti vedere come ti videro Galilei e Giudei, né per la gioia di guardare una volta i tuoi occhi, né per l'orgoglio matto di vincerti colla nostra supplicazione. Non chiediamo, noi, la grande discesa nella gloria dei cieli, né il fulgore della Trasfigurazione, né gli squilli degli angeli e tutta la sublime liturgia dell'ultima venuta. C'è tanta umiltà, tu lo sai, nella nostra irrompente tracotanza! Noi vogliamo soltanto te, la tua persona, il tuo povero corpo trivellato e ferito, colla sua povera camicia d'operaio povero; vogliamo veder quegli occhi che passano la parete del petto e la carne del cuore, e guariscono quando feriscono collo sdegno, e fanno sanguinare quando guardano con tenerezza. E vogliamo udire la tua voce che sbigottisce i demoni da quanto è dolce e incanta i bambini da quanto è forte.
Tu sai quanto sia grande, proprio in questo tempo, il bisogno del tuo sguardo e della tua parola. Tu lo sai bene che un tuo sguardo può stravolgere e mutare le nostre anime,
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che la tua presenza è urgente e indifferibile in questa età che non ti conosce.
Sei venuto, la prima volta, per salvare; nascesti per salvare; parlasti per salvare; ti facesti crocifiggere per salvare: la tua arte, la tua opera, la tua missione, la tua vita è di salvare. E noi abbiamo oggi, in questi giorni grigi e maligni, in questi anni che sono un condensamento un accrescimento incomportabile d'orrore e dolore, abbiamo bisogno, senza ritardi, d'esser salvati!
Se tu fossi un Dio geloso e acrimonioso, un Dio che tiene il rancore, un Dio vendicativo, un Dio solamente giusto, allora non daresti ascolto alla nostra preghiera. Perché tutto quello che gli uomini potevan farti di male, anche dopo la tua morte, e più dopo la morte che in vita, gli uomini l'hanno fatto; noi tutti, quello stesso che ti parla insieme agli altri, l'abbiamo fatto. Milioni di Giuda ti hanno baciato dopo averti venduto, e non per trenta denari soli, e neppure una volta sola; legioni di Farisei, sciami di Cajafa ti hanno sentenziato malfattore, degno d'esser rinchiodato; e milioni di volte, col pensiero e la volontà, ti hanno crocifisso; e un'eterna canaia di fecciosi insobilliti t'ha ricoperto il viso di saliva e di schiaffi; e gli staffieri, gli scaccini, i portinai, la gente d'arme degli ingiusti detentori d'argento e di potestà ti hanno frustate le spalle e insanguinata la fronte; e migliaia di Pilati, vestiti di nero o di vermiglio, usciti appena dal bagno, profumati d'unguenti, ben pettinati e rasati, ti hanno consegnato migliaia di volte agl'impiccatori dopo averti riconosciuto innocente; e innumerevoli bocche flatulenti e vinose hanno chiesto innumerevoli volte la libertà dei ladri sediziosi, dei criminali confessi, degli assassini conosciuti, perché tu fossi innumerevoli volte trascinato sul Teschio e affisso all'albero con cavicchi di ferro fucinati dalla paura e ribattuti dall'odio.
Ma tu hai perdonato tutto e sempre. Tu sai, tu che sei stato in mezzo a noi, qual è il fondo della nostra natura sciagurata. Non siamo che rappezzi e bastardume, foglie instabili e passanti, carnefici di noi medesimi, aborti malvenuti che si sdraiano nel male a guisa d'un lattante rinvoltato nel suo piscio, d'un briaco
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stramazzato nel suo vomito, d'un accoltellato disteso nel suo sangue, d'un ulceroso giacente nel suo marciume. T'abbiamo respinto perché troppo puro per noi; t'abbiamo condannato a morte perché eri la condanna della nostra vita. Tu stesso l'hai detto in quei giorni: «Stetti in mezzo al mondo e nella carne mi rivelai ad essi; e trovai tutti ubriachi e nessuno trovai fra loro assetato, e l'anima mia soffre per i figlioli degli uomini, poiché son ciechi nel loro cuore». Tutte le generazioni sono eguali a quella che ti crocifisse e, sotto qualunque forma tu venga, ti rifiutano. «Simili, — tu dicesti — a quei ragazzi che stanno per le piazze e gridano ai compagni: V'abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; abbiamo intonato lamenti e non avete pianto». Così abbiamo fatto noi, per quasi sessanta generazioni.
Ma ora è venuto il tempo che gli uomini son più ebbri d'allora ma più sitibondi. In nessuna età come in questa abbiamo sentito la sete struggente d'una salvazione soprannaturale. In nessun tempo, di quanti ne ricordiamo, l'abbiettezza è stata così abbietta e l'arsura così ardente. La terra è un Inferno illuminato dalla condiscendenza del sole. Ma gli uomini sono attuffati in una pegola di sterco stemperato nel pianto, dalla quale si levano, talvolta, frenetici e sfigurati, per buttarsi nel bollor vermiglio del sangue, con la speranza di lavarsi. Da poco sono usciti da uno di questi feroci lavacri e son tornati, dopo l'immensa decimazione, nel comun brago escrementizio. Le pestilenze hanno seguito le guerre; i terremoti le pestilenze; immani armenti di cadaveri infraciditi, quanti ne bastava una volta per popolare un regno, son distesi sotto il lieve schermo della terra bacosa, occupando, se fossero insieme, lo spazio di molte provincie. Eppure, come se tutti quei morti non fossero che una prima rata dell'universale distruzione, seguitano ad uccidersi e ad uccidere. Le nazioni opulente condannano alla fame le nazioni povere; i ribelli ammazzano i loro padroni di ieri; i padroni fanno ammazzare i rivoltosi dei loro mercenari; nuovi dittatori, profittando dello sfasciume di tutti i sistemi e di tutti i regimi, conducono intere nazioni alla carestia, alla strage e alla dissoluzione.
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L'amor bestiale di ciascun uomo per sé stesso, di ogni casta per sé medesima, di ogni popolo per sé solo, è ancora più cieco e gigante dopo gli anni che l'odio ricoprì di fuoco, di fumo, di fosse e d'ossami la terra. L'amore di sé, dopo la disfatta universale e comune, ha centuplicato l'odio: odio dei piccoli contro i grandi, degli scontenti contro gli inquieti, dei servipadroni contro i padroni asserviti, dei ceti ambiziosi contro i ceti declinanti, delle razze egemoni contro le razze vassalle, dei popoli aggiogati contro i popoli aggiogatori. L'ingordigia del troppo ha generato l'indigenza del necessario; la prurigine dei piaceri il rodìo delle torture, la smania di libertà l'aggravamento delle pastoie.
Negli ultimi anni la specie umana, che già si torceva nel delirio di cento febbri, è impazzita. Tutto il mondo rintrona del fragore di macerie che rovinano; le colonne sono interrate nel pattume; e le stesse montagne precipitano dalle cime valanghe di pietrisco perché tutta la terra diventi un maligno piano eguale. Anche gli uomini ch'eran rimasti intatti nella pace dell'ignoranza li hanno strappati a forza dalle sodaglie pastorali per rammontarli nel mescolamento rabbioso delle città a inzafardarsi e patire.
Dappertutto un caos in sommovimento, un subbuglio senza speranza, un brulicame che appuzza l'aria afosa, una irrequietudine scontenta di tutto e della propria scontentezza. Gli uomini, nell'ebrietà sinistra di tutti i veleni, consuman sé stessi per bramosia di fiaccare i loro fratelli di pena, e, pur di uscire da questa passione senza gloria, cercano, in tutte le maniere, la morte. Le droghe estatiche e afrodisiache, le voluttà che struggono e non saziano, l'alcool, i giuochi, le armi, prelevano ogni giorno a migliaia i sopravvissuti alle decimazioni obbligatorie.
Il mondo, per quattr'anni interi, s'è imbrattato di sangue per decidere chi doveva aver l'aiola più grande e il più grosso marsupio. I servitori di Mammona hanno cacciato Calibano in opposte interminabili fosse per diventare più ricchi e impoverire i nemici. Ma questa spaventevole esperienza non ha giovato a nessuno. Più poveri tutti di prima, più affamati di prima, ogni gente è tornata ai piedi di fango del Dio Negozio a sacrificargli
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la pace propria e la vita altrui. Il divino Affare e la santa Moneta occupano, ancora più che nel passato, gli uomini invasati. Chi ha poco vuol molto; chi ha molto vuol più; chi ha ottenuto il più vuol tutto. Avvezzati allo sperpero degli anni divoratori, i sobri son diventati ghiotti, i rassegnati son fatti avidi, gli onesti si son dati al ladroneccio, i più casti al mercimonio. Sotto il nome di commercio si pratica l'usura e l'appropriazione; sotto l'insegna della grande industria la pirateria di pochi a danno di molti. I barattieri e i malversatori hanno in custodia il denaro pubblico e la concussione fa parte della regola di tutte le oligarchie. I ladri, rimasti soli ad osservare la giustizia, non risparmiano, nell'universale ruberia, neppure i ladri. L'ostentazione dei ricchi ha chiovato nella testa di tutti che altro non conta, sulla terra finalmente liberata dal cielo, che l'oro e quel che si può comprare e sciupare coll'oro.
Tutte le fedi, in questo marame infetto, smortiscono e si disfanno. Una sola religione pratica il mondo, quella che riconosce la somma trinità di Wotan, Mammona e Priapo; la Forza che ha per simbolo la Spada e per tempio la Caserma: la Ricchezza che ha per simbolo l'Oro e per tempio la Borsa; la Carne che ha per simbolo il Phallus e per tempio il Bordello. Questa è la religione regnante su tutta la terra, praticata con ardore dai fatti, se non sempre con le parole, da tutti i viventi. L'antica famiglia si frantuma: il matrimonio è distrutto dall'adulterio e dalla bigamia; la figliolanza a molti par maledizione e la scansano con le varie frodi e gli aborti volontari; la fornicazione sopravanza gli amori legittimi; la sodomia ha i suoi panegiristi e i suoi lupanari; le meretrici, pubbliche e occulte, regnano sopra un popolo immenso di slombati e di sifilitici.
Non c'è più Monarchie e neanche Repubbliche. Ogni ordine non è che fregio e simulacro. La Plutocrazia e la Demagogia, sorelle nello spirito e nei fini, si contendono la dominazione dell'orde sediziose, malamente servite dalla Mediocrità salariata. E intanto sopra l'una e l'altra delle caste in campo, la Coprocazia, realtà effettiva e incontestata, ha sottomesso l'Alto al Basso, la Qualità alla Quantità, lo Spirito al Fango.
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Tu sai queste cose, Cristo Gesù, e vedi ch'è giunta un'altra volta la pienezza dei tempi e che questo mondo febbroso e imbestiato non merita che d'esser punito da un diluvio di fuoco o salvato dalla tua mediazione: Soltanto la tua Chiesa, la Chiesa da te fondata sulla Pietra di Pietro, la sola che meriti il nome di Chiesa, la Chiesa unica e universale che parla da Roma colle parole infallibili del tuo Vicario, ancora emerge, rafforzata dagli assalti, ingrandita dagli scismi, ringiovanita dai secoli, sul mare furioso e limaccioso del mondo. Ma tu che l'assisti col tuo spirito sai quanti e quanti, perfino tra quelli che vi son nati, vivon fuori della sua legge.
Hai detto una volta: «Se uno è solo io sono con lui. Rimuovi la pietra e lì mi troverai, incidi il legno ed io son qui». Ma per scoprirti nella pietra e nel legno è necessaria la volontà di cercarti, la capacità di vederti. E oggi i più degli uomini non vogliono, non sanno trovarti. Se non fai sentire la tua mano sopra il loro capo e la tua voce ne' loro cuori seguiteranno a cercare solamente sé stessi, senza trovarsi, perché nessuno si possiede se non ti possiede. Noi ti preghiamo dunque, Cristo, noi, i rinnegatori, i colpevoli, i nati fuori di tempo, noi che ci rammentiamo ancora di te, e ci sforziamo di viver con te, ma sempre troppo lontani da te, noi, gli ultimi, i disperati, i reduci dai peripli e dai precipizi, noi ti preghiamo che tu ritorni ancora una volta fra gli uomini che ti uccisero, fra gli uomini che seguitano a ucciderti, per ridare a tutti noi, assassini nel buio, la luce della vita vera.
Più d'una volta sei apparso, dopo la Resurrezione, ai viventi. A quelli che credevan d'odiarti, a quelli che ti avrebbero amato anche se tu non fossi figliolo di Dio, hai mostrato il tuo viso ed hai parlato con la tua voce. Gli asceti nascosti tra le ripe e le sabbie, i monaci nelle lunghe notti dei cenobi, i santi sulle montagne, ti videro e ti udirono e da quel giorno non chiesero che la grazia della morte per riunirsi con te. Tu eri luce e parola sulla strada di Paolo, fuoco e sangue nello speco di Francesco, amore disperato e perfetto nelle celle di Caterina e di Teresa. Se tornasti per uno perché non torni, una volta, per tutti? Se quelli meritavano di vederti, per i diritti dell'appassionata speranza,
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noi possiamo invocare i diritti della nostra deserta disperazione. Quell'anime ti evocarono col potere dell'innocenza; le nostre ti chiamano dal fondo della debolezza e dell'avvilimento. Se appagasti l'estasi dei Santi perché non dovresti accorrere al pianto dei Dannati? Non dicesti d'esser venuto per gl'infermi e non per i sani, per quello che s'è perduto e non per quelli che son rimasti? Ed ecco tu vedi che tutti gli uomini sono appestati e febbricitanti e che ognuno di noi, cercando sé, s'è smarrito e ti ha perso. Mai come oggi il tuo Messaggio è stato necessario e mai come oggi fu dimenticato o spregiato. Il Regno di Satana è giunto ormai alla piena maturazione e la salvezza che tutti cercano brancolando non può esser che nel tuo Regno.
La grande esperienza volge alla fine. Gli uomini, allontanandosi dall'Evangelo, hanno trovato la desolazione e la morte. Più d'una promessa e d'una minaccia s'è avverata. Ormai non abbiamo, noi disperati, che la speranza d'un tuo ritorno. Se non vieni a destare i dormenti accovati nella belletta puzzante del nostro inferno, è segno che il gastigo ti sembra ancor troppo certo e leggero per il nostro tradimento e che non vuoi mutare l'ordine delle tue leggi. E sia la tua volontà ora e sempre, in cielo e sulla terra.
Ma noi, gli ultimi, ti aspettiamo. Ti aspettiamo ogni giorno, a dispetto della nostra indegnità e d'ogni impossibile. E tutto l'amore che potremo torchiare dai nostri cuori devastati sarà per te, Crocifisso, che fosti tormentato per amor nostro e ora ci tormenti con tutta la potenza del tuo implacabile amore.
Negli ultimi tempi della sua vita, Papini, impossibilitato dalla grave malattia a qualsiasi movimento, riusciva a dettare alla nipote Anna le famose schegge, soprattutto per il Corriere della
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la Sera. Sono ora raccolte in tre volumi: La felicità dell'infelice, La spia del mondo, Schegge. Sono «frammenti di pensieri, spunti di poesia, tessere di capricci», schegge abbandonate durante la lavorazione delle grandi opere.
Talune di queste schegge, di cui ne riportiamo alcune, ci offrono un'immagine inedita del grande scrittore; certo costituiscono un'antologia seducente per ricchezza poetica, profondità spirituale, nobiltà di sentimenti, vivezza d'intelligenza. Egli che ha perduto l'uso delle gambe, delle braccia, delle mani, «sempre più cieco, sempre più immoto, sempre più silenzioso», non rinuncia ad arrivare al traguardo «con l'anima intera».
Ogni uomo è solo fra gli uomini come la terra è sola in mezzo alle stelle.
Siamo soli perché non sappiamo amare. Amiamo negli altri il nostro piacere, la nostra utilità, il nostro desiderio. I meno vili amano la forma, la bellezza, qualche segno di virtù e di sovranità. Ma chi ama soltanto per amare, senza calcolo di bene proprio, senza speranza di restituzioni e senza repugnanza di miserie, di deformità e di abiezioni? Chi ama con tutto il sangue del cuore, con tutto l'abbandono dell'anima, dimenticando sé sino alla negazione? Chi ama il povero per misericordia della sua povertà, il ricco per pietà della sua ricchezza, l'infermo per compassione delle sue piaghe, l'omicida per commiserazione del suo delitto?
Chi non dà sé stesso è come se non desse nulla. Soltanto chi offre tutto sé e non vuol contraccambio è tutt'uno col fratello, entra senza difficoltà nell'anime più otturate, è inteso e intende senza parole.
Ma l'uomo non può amare l'uomo in modo così perfetto se Dio non è intermediario. Anche il santo non potrebbe donar tutto se stesso se avesse intorno soltanto uomini al par di lui. La creatura non si piega che dinanzi a Colui ch'è al disopra di tutti. E solamente quando s'è offerta a Dio riesce, per amorosa obbedienza, ad abbandonarsi agli altri.
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Il santo non è più solo perché ha Dio con sé. Nel deserto terrestre un solo dialogo è possibile: quello tra l'anima e Dio. Ma vi son milioni d'anime che non lo conoscono, e milioni che non l'ascoltano, e milioni che non sanno intenderlo, e milioni che non l'ubbidiscono, e milioni che non l'amano. E allora, non sapendo parlare con l'Unico che possa comprenderle, non possono neppur conversare coll'altre anime. E l'uomo, avendo rifiutato l'Eterno Compagno, rimane irremissibilmente solo.
Asseriscono certi fisici che l'uomo, in quanto dimensione e mole, è a metà strada precisa tra l'atomo invisibile e l'astro di maggiore grandezza. E se non ci credete vi ripeteremo quel che il sagace mugnaio rispose a Barnabò nella novella famosa di Franco Sacchetti.
Ma l'uomo è ancor più singolare fra tutte le creature del mondo per altra più profonda benché opposta ragione. In lui infatti si possono notare le azioni più abbiette, i gusti più immondi, i sentimenti più bassi, i peccati più turpi, le atrocità più spietate e, nello stesso tempo, le gesta più eroiche, le creazioni più sublimi, i pensieri più nobili, i ritrovati più sottili e meravigliosi, la carità più perfetta quale si vede non solo nei santi, ma talvolta anche in persone umili e ignote. Nessun altro essere dell'universo racchiude in sé queste due possibilità estreme, queste due vocazioni contrarie, questi abissi di vergogna e questi vertici di splendore spirituale. L'uomo può esser più bestiale delle bestie, più porcino dei porci, più tigresco delle tigri, più velenoso dei serpenti, più flaccido dei vermi, più appestante di una carogna, ma è pur capace di spaziare con la mente fino agli ultimi confini del mondo, di misurare le stelle più remote, di scoprire i principi che reggono la natura, di assoggettare le forze della materia, di giudicare con la sua morale gli stessi dei, di creare il Partenone e la cattedrale di Chartres, la Cappella Sistina e la Quinta Sinfonia, l'Odissea e la Divina Commedia, l'Amleto e il Faust.
Nell'angiolo tutto è angelico e puro, nell'animale tutto è
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animalesco e istintivo; nell'uomo, e soltanto in lui, osserviamo l'eccesso dell'infamia e il volo supremo dell'anima che vuol rivaleggiare con Dio.
L'uomo dunque è un mistero, il più oscuro e paradossale dei misteri che a lui stesso si presentano nel corso della sua storia intellettuale.
«Mi hanno detto — scrive Lautréamont — che son figlio di un uomo e di una donna: strano! Credevo d'essere molto di più». E difatti l'uomo è qualcosa di più: per la sua problematica e antinomica natura non può essere il discendente del protoplasma marino o il cugino di un gorilla. Deve essere qualcosa di più, molto di più; un'opera che postula un autore fuori del comune e dell'ordinario. L'esistenza dell'uomo è una delle più sicure prove dell'esistenza di Dio.
L'uomo — affermò Versiero — è un bruto incurabile.
No — risposi — l'uomo è un angelo intossicato.
Un angelo — riprese Versiero — non si fa avvelenare. L'uomo non è che un quadrupede riottoso e maligno che, a forza di superbia, riesce a star ritto sulle zampe di dietro.
— Se fosse davvero una bestia non si sarebbe mai accorto di esserlo e soprattutto non sarebbe capace di confessarlo. Nonostante i suoi accecamenti e i suoi smarrimenti l'uomo ha in sé dei confusi ricordi e certi angosciosi aneliti che dimostrano come egli provenga da un altro mondo, tutto diverso da questo che ora abita, ma che non riesce mai a ritrovare. La nostalgia e la disperazione sono i veri documenti di nobiltà di questa creatura per tanti versi ignobile.
— Conosciamo la vecchia storia — replicò Versiero — e il verso del poeta: «L'homme est un dieu tombé qui se souvient des cieux». Non potrebbe piuttosto trattarsi di un porco annoiato e smanioso che vorrebbe innalzarsi al disopra del brago?
— Chi aspira ad innalzarsi al disopra della terra — conclusi
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— è segno che in altri tempi ebbe le ali oppure che è destinato, in un lontano futuro, ad averle.
A dispetto dei reali e proclamati progressi meccanici dell'età moderna gli uomini seguitano a non poter fare a meno delle bestie. Si vestono come ai tempi delle caverne con le spoglie delle bestie, sia tessute come la lana o naturali come le pellicce; si nutrono in prevalenza con cadaveri di bestie; si servono ancora delle bestie tanto per diminuire la fatica quanto per farsi trasportare da un luogo a un altro; estraggono dagli animali certi organi per trasformarli in farmaci per curare le malattie umane; non possono fare a meno della compagnia di gatti, di cani, di scimmie, di pappagalli e di altri uccelli; vanno sempre più numerosi a caccia delle bestie pacifiche o di quelle feroci; si servono di cavalli, di tori, di leoni e di tigri e perfino di foche e di serpenti per i pubblici divertimenti; fanno esperienze scientifiche sulle bestie vive; debbono continuamente combattere mediante le armi della chimica contro insetti e parassiti che non son riusciti a sterminare; dedicano continuamente manuali e musei allo studio delle bestie scomparse o viventi.
Perfino per gli oggetti di uso comune, come le corde del violino o i pennelli per la barba o la cera per i pavimenti, gli uomini sono tributari delle bestie. Questa comunanza e fratellanza di vita tra i sedicenti bruti e i sedicenti primati di prima classe, ha degli effetti ben visibili sul nostro comportamento quotidiano e su quelle costumanze fondamentali e universali da tutti conosciute e da pochissimi riconosciute.
Come ognuno sa la maggior parte degli animali vive di preda e si dedica all'uccisione di altri animali. Lo stesso accade tuttodì tra gli uomini. L'istinto della rapina per mezzo della forza e dell'astuzia è ancora fortissimo nei popoli più progrediti e raffinati anche alla metà del secolo XX. Sopravvivono in molti paesi antichissime forme del brigantaggio a mano armata e della conquista militare — accompagnata quasi sempre da
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saccheggi e da annessioni — ma godono sempre maggior fortuna le forme più moderne quali il borseggio, la truffa, l'appropriazione illegale, la confisca, il ladrocinio commerciale e industriale, senza contare i prestiti volontariamente non restituiti e le abituali frodi allo stato
L'omicidio, come tutti possono osservare leggendo le storie recenti e i giornali di ogni mattina, è sempre più fiorente anche tra i popoli di razza bianca. Qualunque motivo o pretesto è buono per sopprimere i nostri simili: la gelosia o la politica, la vendetta o il lucro, la punizione dei delinquenti o l'amore non corrisposto, la speranza di un premio o l'accecamento del furore, l'assillo del guadagno sognato e conteso o il sadismo sessuale, senza contare le carneficine in massa delle insurrezioni, delle fucilazioni e delle invasioni e neppure quegli omicidi gratuiti perfetti venuti di moda attraverso la letteratura europea negli ultimi decenni.
Si vedono ogni giorno innamorati che uccidono le amanti, mogli che uccidono i mariti, mariti che uccidono le mogli, padri che uccidono i figli, figli che uccidono i genitori, fratelli che ammazzano i fratelli, ladri che ammazzano i derubati, criminali che sopprimono i poliziotti, poliziotti che sopprimono i criminali e perfino fanciulli e adolescenti che per gioco o per gola di pochi soldi strangolano e sgozzano i loro coetanei. Gli stati non sono meno risolutamente omicidi dei cittadini che li compongono: le guerre di sterminio sono ancora frequenti e in quasi tutti i paesi cristiani i codici ammettono solennemente il diritto di contravvenire a uno dei più antichi e perentori comandamenti di Dio. Anche ai tempi nostri come in quelli delle «Soirées de St. Petersbourg» di Giuseppe de Mainstre c'è sulla terra un perenne «ruissellement de sang».
Ma vi sono anche dei dolori che non dipendono da noi, né dalla nostra animalità né dalla nostra angelicità. La morte di
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una creatura amata che nessuno è riuscito a salvare; la perdita di vite e di beni quando le cateratte del cielo si aprono troppo a lungo, quando i fiumi traboccano e allagano, quando le viscere della terra sobbalzano e apportano ambascie e angoscie anche agli innocenti. Son questi i dolori che fanno dubitare della giustizia e della bontà divina a coloro che vedono e riflettono soltanto a metà.
Questi dolori hanno effetti opposti a seconda delle anime che da essi vengono percosse: quelle fatte di stoffa rozza si inaspriscono e si inaridiscono, quelle di natura più sublimata e ardente si purificano e si elevano. Il dolore in apparenza maligno e crudele diventa, al contrario, un principio e un mezzo efficace di catarsi. Il tormento è, per gli spiriti privilegiati, lume che rivela, antidoto che disavvelena, fuoco che sublima.
Un miracolo ancora più incredibile, raro ma stupendo, si avvera in certe anime di santi e di poeti: il dolore, arrivato alla sua estrema pienezza, esplode in gioia, fiorisce in felicità.
Dinanzi al succedersi e all'incalzare delle sventure e delle torture una delle due: o l'uomo si accascia e si dissolve oppure chiama a raccolta le sue ultime forze e risponde eroicamente alla sfida crudele del destino. La sua disperazione è ricompensata dalla speranza; il suo gemito di orrore si tramuta in voce di vittoria; e, finalmente, la sua «notte oscura» si riempie all'improvviso di splendore, risuona ad un tratto d'inni di giubilo, di corali di tripudio, di peana trionfali.
Il canto di Daniele nella fossa dei leoni, il canto di Francesco nei giorni dell'agonia finale, il canto di Beethoven nella tristezza dello sordità e della solitudine, sono tra i momenti più eccelsi che il genere umano possa ricordare — quando non vuol vergognarsi di se medesimo.
Una delle parole più profonde sul Cristianesimo che io abbia sentito è questa: «Anche se Cristo nascesse mille e diecimila volte a Betlemme a nulla ti gioverà se non nasce almeno una volta nel tuo cuore».
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Questi due versi da me malamente tradotti si trovano nel Pellegrino Cherubico di Angelo Silesio, un protestante tedesco del Seicento, che quando si convertì al cattolicesimo diventò frate minore e poeta maggiore.
Ma come potrà accadere questa nascita interiore? La nostra anima è spesso simile a una stalla tanto è stretta e buia e così ingombra di lerciume, che pare non ci possa essere posto per un Dio, anche se fanciullo.
Eppure questo miracolo nuovo non è impossibile purché sia desiderato e aspettato.
Il giorno nel quale non sentirai una punta di amarezza e di gelosia dinanzi alla gioia del nemico o dell'amico, rallegrati perché è segno che quella nascita è prossima.
Il giorno nel quale non sentirai una segreta onda di piacere dinanzi alla sventura e alla caduta altrui consolati perché la nascita è vicina.
Il giorno nel quale sentirai il bisogno di portare un po' di letizia a chi è triste e l'impulso di alleggerire il dolore o la miseria anche di una sola creatura sii lieto perché l'arrivo del Dio è imminente.
E se un giorno sarai percosso e perseguitato dalla sventura e perderai salute e forza, figli e amici e dovrai sopportare l'ottusità, la malignità e la gelidità dei vicini e dei lontani, ma nonostante tutto non ti abbandonerai a lamenti né a bestemmie e accetterai con animo sereno il tuo destino, esulta e trionfa perché il portento che pareva impossibile è avvenuto e il Salvatore è già nato nel tuo cuore.
Non sei più solo, non sarai mai più solo. Il buio della tua notte fiammeggerà come se mille stelle chiomate giungessero da ogni punto del cielo per festeggiare l'incontro della tua breve giornata umana con la divina eternità.
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